Alvaro Valsenti: Amarcord Sant’agnese

Nel quartiere Sant’Agnese di Terni non troverete alcuna chiesa con questo nome. Quel misterioso luogo di culto a cui tuttora la zona deve il nome è stato raso al suolo in tarda epoca medioevale, ed i suoi resti giacciono nascosti da qualche parte tra le fondamenta dei lunghi esempi di edilizia popolare che caratterizzano la zona.
Alvaro Valsenti non è tanto anziano da avere conosciuto le monache devote alla Santa romana, ma come onorato residente nel quartiere sin dal 1924 conosce molte storie, oltre a quelle della chiesa perduta.

“Il quartiere è cresciuto al centro di tutte queste fabbriche: l’acciaieria, la fabbrica d’armi, iutificio, Bosco… era un centro operaio, la gente che abitava qui erano tutti operai”.

Una piccola isola socialista che galleggiava tra le acque del Serra e quelle dei tanti canali artificiali (o “forme”) scavati per alimentare l’industria, e le pozze e i lavatoi, dove le donne sciacquavano i panni lisi e i bambini si esibivano in tuffi.
Alvaro ricorda bene quei giorni di assoluta povertà, eppure di sfrontato slancio vitale. Si viveva alla giornata ai tempi in cui il pane era razionato ma non garantito. Eppure Sant’Agnese non conosceva quiete:

“Un quartiere vivo, di gente povera, che viveva nei bassifondi. Stanze cinque per cinque, divise con lenzuola appese al fil di ferro. Ti sposavi perché le femmine sapevano fare il pane e la pasta a casa, facevano da mangiare, accendevano il camino. Ora i camini non ci sono più, se i russi ci tagliano i tubi del gas ce morimo de friddu.”

Come cittadino senior Valsenti ha attraversato la turbolenta storia di Terni vivendone la crescita, la tragedia della guerra, la fase della ricostruzione e la crisi. Ha preso parte attivamente alla resistenza cittadina, poi la militanza nel PCI, nell’ANPI, gli arresti e i licenziamenti per le rappresaglie politico-sindacali a cui aveva partecipato. Eppure, nonostante tanto vissuto, di fronte a quegli occhi di vispo novantaquattrenne scorrono ancora nitide le facce degli abitanti di quelle vie profondamente mutate negli anni, e a tutti i visi riesce ad associare un nome, un soprannome vero, di quelli decisi a furor di popolo, e un indirizzo.
Ricciolina l’ortolana. Zenobbia la moglie dell’acchiappacani che indossava lunghi gambali per andare a raccogliere i tanti randagi senza museruola. Filipponi Alfredo, comandante della brigata Gramsci, che teneva i contatti con il Partito Comunista clandestino. Gli anarchici Fabri e Paparelli, i fascisti Alpini, Vito, “e altri tre, quattro” con la camicia nera. Pochi, perché la Terni di Tito Oro Nobili era socialista. Alvaro veniva chiamato Lu Pallone perché ce l’aveva sempre tra i piedi, Bicchieretta aveva la passione per il vino e Piè Veloce era un fulmine. Lu Lupu Manaru era il titolare di una delle quattro bettole della zona, doveva il suo nome ai cambi repentini di umore che lo coglievano al calar del sole dopo una giornata trascorsa troppo vicino alla botte.
I giovani invece non si dedicavano alle bettole, correvano e nuotavano sopra ai morsi della fame. Il fiume Serra era una piscina naturale, sede elettiva dei giochi e delle sfide dei bardascetti della zona nonché una era e propria accademia di nuoto.

“Io ero uno degli istruttori principali, avrò insegnato a nuotare a mezza Terni”.

La corrente era molto forte, affrontarla richiedeva concentrazione e vigore. Per questo a Sant’Agnese si formavano atleti formidabili di ogni tipo, come il ginnasta Spina Dario, che doveva andare alle olimpiadi, il pugile e lanciatore di giavellotto Galeazzi Aldo, il formidabile Attili, che col suo fisico sembrava Gordon dei giornalini di avventura.

“Eravamo tutti atleti, facevamo ginnastica insieme… ora i giovani non lavorano e non fanno niente.”

Alvaro era arrivato a giocare con il settore giovanile della Ternana, il sogno di ogni bambino della città. Suo malgrado dovette lasciare.

“Per via dei razionamenti negli anni quaranta. Con la tessera del pane non mi reggevo in piedi. Quaranta grammi di riso… la fame ci faceva girare la testa, di notte sognavamo di tagliare il pane. Quello significa la fame! Una volta ho trovato un pezzo di pane in terra, l’ho portato con me in fabbrica. Sono tornato a casa, una fame e non sapevo che mangiare… Ma mi ero scordato che il pane ce l’avevo! Sono tornato di corsa in fabbrica a prendere il pezzo di pane sporco che mi ero lasciato, al capo avevo detto che mi ero scordato la colazione del giorno prima nell’armadietto. Poi con la guerra è andata anche peggio.”

Oggi la piazzetta del quartiere e gli stretti viali tra le case sono silenziosi, e di quando in quando si captano accenti esotici e lingue straniere a testimonianza di una Terni piombata nella società multiculturale. Ma ai suoi tempi, assicura Alvaro, quelle vie esplodevano di vita. Giochi con le bocce, le biglie, i palloni. E le raccomandazioni dei genitori in apprensione di fare attenzione al passaggio… delle bici, ovviamente. Di automobili al tempo ne circolavano tre o quattro in città, e chi le possedeva veniva chiamato dottore.
L’inventiva dei ragazzi nel trovare giochi adatti alle loro tasche era pressoché infinita. Le ragazze prediligevano la campana, i ragazzi spingevano cerchi di bici senza raggi con delle asticelle. Quando volevano dare sfogo agli istinti più cruenti costruivano fucili di legno armati con elastici, e all’apice dell’esaltazione nascevano anche delle sassaiole con i ragazzi dell’adiacente quartiere di Borgo Bovio (in uno di questi regolamenti di conti il fratello di Alvaro perse un occhio). I rapporti con il quartiere rivale migliorarono quando i giovani, ormai adolescenti, scoprirono una donna che per cinque lire non disdegnava di incontrarli nel retrobottega del falegname gobbo.
Ma l’età dell’innocenza di questi figli della strada si alimentava di scevra fantasia, che correva senza barriere tra i frondosi alberi che crescevano spontanei sulle sponde del fiume. Quella macchia selvatica era tanto fitta che era possibile saltare da un albero all’altro, fino a quattordici di fila, senza mai toccare terra. Così si giocava a fare Tarzan.
Una volta l’enorme Colonna, rispettato lottatore, cadde da un albero tagliandosi in malo modo. Le sue ferite richiedavano l’intervento di un medico, ma i ragazzi erano nella giungla ovviamente, lì di dottori non ne avrebbero trovati. Quindi decisero di curarlo con il latte di fico. “Gli strilli…”
Venivano a conoscenza delle gesta di Tarzan e degli altri eroi attraverso il cinema, piccolo lusso a cui la povera gente non riusciva comunque a rinunciare.

“Era il cinema muto degli anni trenta. C’era una cassetta musicale con il tema e l’introduzione e vedevi il film muto. I soldi non c’erano, al cinema Venezia fino al 1940 si pagavano 14 soldi. Stava in via Mazzini, dove adesso sta Marcelloni. Quattordici bardascetti mettevano un soldo a testa per un biglietto e poi, chi era dentro, apriva le porte delle uscite di sicurezza per far entrare gli altri. Ci mettevamo sulle poltrone poi, quelle riservate ai Signori, non sulle panchinette dei biglietti economici. Certe volte a fine primo tempo entrava il padrone a controllare, e allora… Ne inventavamo di tutti i colori per vedere il cinema.”

di Matteo Paloni

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